venerdì 18 dicembre 2015

Introspezione

Una nebbia spessa e incrostata di strani presentimenti. 
Gli strani presentimenti mi creano un cerchio alla testa, un fastidio, come il leggero dolore del collo indolenzito quando provo a scrutare tutto quanto possa essere scrutato, ma no, non quello che ho davanti. Non riesco a vedere niente, oltre le punte dei cipressi, tutto è d'un bianco sporco, complice, colpevole. La nebbia è umidità compressa, un'opacità impossibile da tagliare e sezionare per rendere tutto più chiaro. Ma funziona bene come giustificazione per un umore guasto: perchè mi viene incontro ed è appiccicosa, mi accerchia e mi inghiotte. E' un po' opprimente, preme sul mio corpo, cerca di conquistare ogni spazio, prova a penetrare il giacchetto, il maglione caldo di lana ed infine la pelle indifesa. Ci prova e ci riesce: fa scivolare piano e decisa il suo indice sulle mie costole, sento rabbrividire le ossa, tentennano nel loro predefinito posto nella grande impalcatura che sostiene carne, grasso, nervi, neuroni, dignità, sentimenti, pensieri, spavaldamente. Indietreggio impercettibilmente, dentro di me. L'ospedale, le retoriche colline toscane, le luci degli agriturismi, il convento appena dietro la curva..Non c'è rimasto più niente. Tento ancora di non guardare la tragedia che mi si staglia davanti, ancora sforzo il collo anche se fa male, ma questo nulla speculare a me non mi lascia altre vie di fuga. E dunque mi immergo, scendo in questa aria difficile da respirare, lascio che ogni mia cellula se ne impregni; abbandono la sabbia dorata e calda dell'esteriorità, di quella realtà bidimensionale e piatta della superficie delle cose per abbracciare ciò che, con decisa e costante attenzione, ripudio. Eccoci davanti al tempio delle cose scomode, ammucchiate ed abbandonate sulla scena di questa piccola disperazione personale. Tutto quello che è brutto o debole viene qui lasciato, per potersi mostrare al mondo sempre splendidamente luccicante e sfrigolante di sorrisi. A volte ci relego anche persone, interi esseri umani che per il momento devo far tacere e lasciarle sospese nel mio cono d'ombra, anche se poi la loro assenza viene a bussare forte ed io non posso fare altro che sopportare il dolore del rumore e lasciarli fuori dalla porta a morire di una attesa incessante. Capita che ci relego anche me, tutta me, voglio dire: un corpo non può andarsene a giro da solo, però con lui ci resta solo la percentuale minima di personalità, alla quale non costa niente sorridere ed annuire e ascoltare cose che in quel momento non mi toccano per niente. Perché nel frattempo io sono altrove; sono come un asceta sulla montagna, però un asceta turbato e stravolto da desideri che pensava di aver eliminato e superato, ma invece loro si presentano con una forza che sopraffà il povero uomo presunto stoico. Ed egli si accascia, su un letto di pietra, in una radura verde e boschiva, assume una posizione fetale nei confronti dell'universo che in quel momento gli pare soltanto un impossibile nemico da fronteggiare. Le spalle ricurve, inclinate ad incorniciare il collo teso, le leggere gambe che prima sostenevano un leggero corpo quasi etereo, ripiegate su di sè, fanno un blocco unico e compatto con l'addome. Ma il particolare più inquietante sono gli occhi: spersi e dispersi. Sono piantati dritti a loro, ma non vedono assolutamente niente, intuiscono solo caos ed un senso di impotenza dal quale è difficile fare ritorno. Hanno quel caos disegnato nei loro bulbi e lo percepiscono.
Al centro del tempio delle cose scomode, sto come il folle asceta, immersa in questo mondo che creo e che voglio dimenticare. Tra le altre cose sospese, gravitano nel mio spicchio di caos la grande disperazione, che somiglia ad una galassia e vista da lontana ha l'aria sacra delle cose imperscrutabili, rilucente nelle sue materializzazioni, e gli attimi non colti, figli di incertezze e paure inconsistenti, pulviscoli di grandi esplosioni mai avvenute e inesorabilmente mancate. Gravitano sentimenti scissi, le parti più buie del sentire, quell'acidità dell'invidia, quella rabbia cieca, quell'accidia dilaniante, che mi rendono poco incline all'elasticità mentale, a causa loro bandisco interi possibili mondi alternativi dal mio campo visivo e di azione.
Ma il fulcro di questo oscuro universo, che però mantiene una bellezza ed una luce in sè innegabili, se ne sta al centro di tutto e sembra vigilare su ogni cosa. E si palesa solo nell'attimo in cui porto a confronto me con gli altri: solo nel momento del contatto io lo vedo distintamente in me, una grossa vena al centro del mio corpo e del mio essere. Piano piano, porto alle forme, alle sfaccettature, questo materiale grezzo, che per contrasto negativo agli altri inizia a delinearsi sotto i miei occhi.

E allora vedo che...
Tu hai fame della gente, io no. Tu sorridi agli altrui sguardi con facilità, con voglia di succhiare dolcemente un sorriso di rimando. Io no. La gente non mi piace. La gente mi intimorisce, mi imbarazza, mi zittisce, mi mette a disagio. Tu invece parli con un tono di voce chiaro, aperto, un po' matto, indirizzi gentilezza e bellezza verso l'esterno. Tu vuoi che gli altri ti facciano stare bene e per una strana legge piuttosto ferrea, questo può accadere solo se anche gli altri stanno bene insieme a te. E tu, questo, lo sai fin troppo bene. Coerentemente alla tua stabile conoscenza di tale assioma, dunque, prendi un respiro e ti butti con entusiasmo nella mischia di suoni squillanti, gesti inconsueti e carini, una vera e propria giungla di frenesia, il grande trionfo della socievolezza.

Io no. Questa giungla la trovo alienante e sconosciuta. Girovago fra liane di legami con un'estraneità conficcata nel cuore che mi distrugge, ho gli occhi spalancati ed atterriti: io non capisco ciò che vedo. Non riesco a gestirmi in questo caos variopinto di rapporti e strette di mano, dove una naturale inclinazione per l'altro, fisicamente vicino, pare un dovere naturale. Un dovere che a te illumina gli occhi, un dovere che tu trasformi in fonte di piacere. Il tuo corpo è il tramite attraverso cui la socievolezza esterna viene a trasformarsi (si converte?) in un miele dolce e fluido che assapori e lasci sedimentare dentro di te con grande commozione.
Ed il mio corpo, invece, cosa è? Io non riesco a farlo funzionare come fai tu. Si risolve piuttosto nell'essere un impedimento, una barriera tinteggiata di colori fotonici, così da vederla in lontananza ed avvertire tutti. Non passate di qua vicino!
Non mettetemi in quella terribile situazione in cui devo aprire la bocca e far fluire parole che non so neanche trovare dentro di me! Lasciatemi nel mio autismo, abbiate rispetto della mia disabilità!
Ma tu no. Tu hai la battuta pronta e giochi di parole da esibire come amuleti orientali, che arrivano da culture lontane ed affascinanti. Tu necessiti del mondo e vuoi il mondo.
Io lo vorrei invece esiliare, sbattere lontanissimo, anni luce, via, vattene mondo! Non ho niente da dirti, non ho niente da offrirti, non pretendere niente da me.
L'incapacità di vivere giorni leggeri, relazioni leggere, colori leggeri. L'impossibilità di preservare per un periodo di tempo abbastanza lungo la leggerezza è il centro delle cose oscurate e terribili dentro di me.
Non riesco ad adeguarmi alla vita, a quello che crediamo essere il suo ritmo naturale. Le mie palpitazioni si consumano in un paesaggio solitario, freddo, dalle tonalità dense e scure.

 ...Ma poi, ora che mi ci fermo a pensare..."L'impossibilità di preservare per un periodo di tempo abbastanza lungo la leggerezza"...In base a quale unità di misura? Chi stabilisce la giusta misura? Chi ha un potere così grande? Tu e la tua socialità? Io e la mia asocialità?

Forse guardo male tutta questa grande mappa mentale; forse ci cerco più di quello che può manifestarmi.
Mi accontento, allora. Ed è un accontentarsi che mi riempie. Torno ad essere più serena. A tratti, incontro la leggerezza. E cerco di spenderla e di donarla con queste strane presenza che sono gli altri intorno a me. E per un poco viene ad essere lei il centro del mio universo.

Forse sì, è così.

martedì 28 luglio 2015

La Città Sospesa (Pilade, Pasolini)

Stamani: 
C'era la luce del nuovo giorno che inondava la camera. Sbircio con un occhio e poi lo richiudo subito. Ma già avevo conquistato con fatica il sonno, recuperarlo mi sembrava piuttosto un miraggio in quel momento. Mi giro di fianco e faccio un grosso respiro. La cadenza regolare dei polmoni mi tranquillizza un po' il cuore, ma non del tutto. Batte già con enfasi, anche se mi sono appena svegliata. Ha battuto forte e concitato per tutta la giornata e per tutta la serata di ieri. Adesso ricomincia. Poco alla volta mi sopraffà di immagini che si sovrappongono: la mente è di nuovo sovra-eccitata. Piano, piano, cuore. Calma, mente! Tutto è finito e passato, ma resterà per sempre sotto pelle, queste giornate non tramonteranno mai, ve lo assicuro! Come poter dimenticare la prima volta che sono entrata in Salina per le prove? Un ventre di balena artificiale, del sale che scorreva giù come cascata esotica e che sanciva lo scorrere del tempo. Uno spazio ampio, grezzo, essenziale. Come scordare l'euforia da bambini di molti adulti davanti ad una visione così surreale? Ed i bambini stessi, felicissimi?  Le labbra e le guance ed i capelli diventavano salati, il sale si insinuava in ogni dove, persino tra i rapporti interpersonali, suggellandoli e fortificandoli. Scendere da Volterra verso Saline era diventato una specie di rito: col sole ancora piuttosto forte lasciarsi alle spalle la mamma-città, con le sue contraddizioni e le sue abitudini, per rigenerarsi e purificarsi attraverso la parole salate,poetiche e dure di Pasolini. Ma Volterra, aggrappata al suo colle, la potevi scorgere se uscivi un attimo dalla fabbrica per una pausa, accigliata ed austera, che ti squadrava con fare indagatorio e severo: controllava ogni nostro gesto in quella fabbrica, sapeva che si trattava soltanto di una fuga precaria, di una sospensione, e che poi saremmo ritornati in fila indiana ed ordinati fra le sue schiere e nei suoi ritmi. Ma questo rendeva il tempo passato in Salina ancora più prezioso. Allora mentre me ne stavo a provare c'era anche una parte di me che si dissociava dal resto dell'unità-corpo, in un certo senso uscivo fuori da me e riuscivo a guardarmi e a guardare tutto dall'esterno. Come un giudice che ha la visione intera di un processo e del tribunale, infatti può vedere sia la parte dell'accusa e della difesa, sia la giuria e gli avvocati. Io riuscivo a contemplare l'insieme di ciò che tutti insieme stavamo portando a compimento, vedevo Gianluca ed Enrica, nello stesso momento avevo percezione del sale che scendeva, osservavo i passi lenti e misurati ed contemporaneamente le belle bandiere. La visione d'insieme, materiale e metafisica, della nostra opera mi lasciava senza parole. I legami fra noi e i legami delle scene, dei movimenti o delle parole, si facevano l'uno lo specchio dell'altro. Progredivano insieme, l'uno accanto all'altro, l'uno che innescava l'altro.
Il 25 luglio:
Lo spettacolo-debutto e la replica ci hanno travolto in un turbine: quando tutto è finito ero frastornata, incapace di capire ogni cosa del tutto. la visione d'insieme adesso mi sfuggiva dalle mani. Confusamente accecata dal sale, dalla stoffa rossa del vestito di Atena, il biancore delle montagne di sale e il nero dei nostri vestiti che risaltava. La processione-corteo delle Eumenidi e degli operai della Smith che veniva dietro ad Atena. Bandiere bianche, rami di ulivo, un movimento ellittico intorno alle montagne di sale; un movimento a spirale soffocante intorno a Pilade. Parole che sovrastavano, toni di voce che si alternavano e si rincorrevano. Da perderci il fiato. Davvero in quel momento, in quel luogo, il tempo era sospeso. 
La notte aveva incalzato il tramonto. Volterra adesso era soltanto un agglomerato di luci in lontananza. Anche lei quella sera taceva e non giudicava. La città era davvero sospesa, non ammessa, esclusa eppure presente, volteggiava nell'area, implicitamente si parlava di lei, ma non aveva diritto di replica. Volterra imprigionata ed ispezionata, rigirata, indagata, messa a nudo nel sale.
"Il progetto è nato come colossal" ci ha detto Enrica, e così si è manifestato in quella Salina, nella penombra della società industriale in cui viviamo, in cui spesso siamo sopraffatti da questo progresso cieco, che lui in primis ci ha escluso dalle sue logiche e da solo si nutre e cresce. L'uomo si ritrova estromesso da una cosa a cui lui stesso ha dato inizio. Un processo che ha avuto origini umane ma che adesso ha decapitato la stessa ragione umana, quella pratica (come la chiamerebbe Kant) che dovrebbe vigilare e vagliare tutti gli atti prima di esercitarli. L'uomo ha spodestato se stesso dalla sua egemonia rendendo il progresso spericolato e folle, si è reso conto che non può davvero essere padrone e tiranno di ogni cosa.  O meglio, non è più padrone, ma non se ne vuole rendere conto, ancora. Cieco e caparbio cerca a tutti i costi di stare alle costole del presunto progresso umano, tecnologico, industriale.
Quello che è stato messo in scena è stato un tentativo di rispondere e di opporsi alla direzione che questo flusso sta avendo: noi, attraverso immagini quasi oniriche (oserei dire) che almeno per l'istante dello spettacolo hanno provato a sospendere le logiche di questa vita trafitta dalla falsa credenza di poter soltanto progredire e di poter soltanto migliorare. E le nostre immagini sono nate dalle parole incalzanti, taglienti e allegoriche di Pasolini che decide di raccontarci questa sua analisi della realtà attraverso ciò che è lo strumento più universale nella comunicazione umana, dagli albori della civiltà: un mito. Pasolini quindi che fa? Deve parlare di cose poco evidenti, anzi, proprio sotterranee, che stanno sotto gli sfavillanti oggetti luccicanti che questo tempo offre. Deve parlare dell'altra faccia della medaglia, quella oscura, quella problematica. E decide di farlo riesumando culture umane antiche, in questo caso quella della tragedia greca. La modernità e i suoi disagi messi in scena attraverso miti e opere teatrali di un'umanità antica, considerata adesso da molti "arcaica". Non mette i brividi una trovata del genere?
Quindi, sostenuti dalle grandi spalle dell'intelletto pasoliniano("nani sulle spalle di giganti"), noi ci siamo eretti in quella fabbrica cercando di trasmettere tutti questi aspetti. Con la guida consapevole e calda umanamente di Archivio Zeta, con Enrica e Gianluca. Che ci hanno fatto conoscere e mettere in atto tutto questo universo di parole e significati. Ecco, azioni del genere lasciano dietro di sé impressioni ed effetti a lungo termine, affetti che non possono scadere insieme alla fine dell'esperienza con-vissuta.
Il 27 luglio: 

Mi sono accorta di ciò quando ieri, prima di partire per Carrara, per fare lo spettacolo al LunaticaFestival, ci siamo ritrovati per tentare di fare il viaggio tutti insieme: quando ho rivisto il laboratorio "Logos" riunito mi sono sentita istantaneamente bene. Come se qualcosa di solido e freddo alla bocca dello stomaco si stesse sciogliendo ed irradiasse un calore che si espandeva piano piano verso il cuore, i polmoni, il cervello. Nuovamente, tutto sorrideva intorno a me, di sorrisi complici ed umili, che avevano come unica pretesa quella di condividere ancora una volta questo viaggio così bello. Arriviamo a Carrara. Arriviamo al cimitero dove dovremo riprodurre lo spettacolo: anche questo un luogo sospeso, luogo umano incastonato in una natura verde e rigogliosa. In lontananza si scorgono le Apuane, con le cave bianche in mostra. Il pomeriggio passa veloce mentre proviamo, in un batter d'occhio siamo al momento dello spettacolo. Mentre ci cambiamo mi ritrovo vicino ad Enrica e a Gianluca, anche loro si stanno cambiando, in un silenzio raccolto, come la calma prima della tempesta. Solo vederli lì vicino a me mi rende felice ed orgogliosa di essere in quel cimitero sperduto in Toscana, pronta a dare il mio contributo per questo spettacolo. Poco da fare, anche se è la terza volta che lo facciamo nel giro di pochi giorni, lo stomaco mi si chiude mentre vedo arrivare Gianluca/Pilade con la sua coperta grezza e rustica sulle spalle, insieme a Rocco con la sua fisarmonica. Sospensione. Lo spettacolo piano piano si avvia verso il suo compimento. Le bandiere bianche (le stesse dello spettacolo alla salina, quelle portate in mano dagli operai della Smith) che innalziamo ad un tratto generano meraviglia e stupore nel pubblico. Finisce lo spettacolo, ci teniamo per mano e stiamo molto vicini fra di noi mentre salutiamo il pubblico. Come un unico corpo composto da molte piccole parti.
Sospiro di sollievo. Soddisfazione, ma anche svuotamento. E adesso? Ci catapultiamo a cena, nell'aria c'è una nota dolce di struggimento: dobbiamo scioglierci, le strade tornano a dividersi. E' il corso naturale delle cose, ma non riesco a farmi trovare pronta da questa naturalezza. Vedo che è una cosa condivisa da molti di noi. Come ho detto prima, vivere insieme cose del genere segna, ma anche lega, profondamente. La cena si sviluppa con allegria e leggerezza, i sorrisi sono tanti e genuini. La piccola Antonia è una risata limpida e viva costante. Giunge il momento di riconfluire nella vita quotidiana. Io mi sento così piena dentro che potrei esplodere da un momento all'altro. Ritorniamo alle macchine. Ci guardiamo fra tutti, ci abbracciamo fra tutti e sono abbracci che vanno oltre l'abbraccio, tentano di far capire qualcosa di ineffabile. Saluto la gentilezza e la dolcezza di Enrica, saluto il bel sorriso e la simpatia di Gianluca. Saluto il loro impegno ed il loro lavoro magnifico. Con gli altri "attori-cittadini" ci rivedremo sicuramente fra le mura di Volterra. Lo stomaco mi si stringe forte: saluto Antonia, la riempio di baci, le dico che non so quando ci rivedremo e lei con semplicità e stupore mi replica:"presto! Ci rivediamo presto". Giusto, ha ragione. Sono io un po' stupidamente romantica che mi lascio prendere da questo piccolo vuoto che incalza, senza tutti loro e mi ci trastullo un po' troppo. 

Presto torneremo sullo stesso sentiero battuto insieme. E lo aspetto con impazienza. Nel frattempo però, nel flusso quotidiano della vita, una nuova piccola luce si è accesa dentro di me, illuminando cose che non avevo ancora conosciuto. E questo è uno dei regali più grandi e belli che si possa fare ad un essere umano.

"Presto! Ci rivediamo presto!"

sabato 11 luglio 2015

Sabbia dorata di tenera nostalgia
mi si addiceva in tempi più miti
le stagioni erano meno invasive

il bianco non era così violento per le mie pupille.
Lontani sussurri di uccelli sugli abeti
mi contornavano l'anima chiara

Albeggiava su ogni centimetro di mondo 
con ineluttabile felicità
e facilità
la pelle era osmotica 
non faceva fatica alcuna ad intrecciarsi
amorevolmente 
con il cielo
e la terra
e le altre pelli di uomo,
scambio reciproco
di energie
e fiori di parole.
Versi o prosa
inchiostro stampato

inchiostro che sgorga da un pugno
tremante e chiuso
rigido, fermo sulla penna a stilo,
traduttore istantaneo
che rende visibile l'invisibile
scrive l'indicibile
su fogli chiari di neve.
Adesso è tutto più deprezzabile

meno arioso
la mano è mozza 
e la penna si incaglia e s'arresta
piove un lampo sulla scrivania
ma io ho gli occhi bendati
e non lo posso vedere
scivola sul legno inosservato
inutile
si ritrae la nuova idea 
nelle viscere della mente
è una mente che non vede
non parla
non ci sente:
percepisce solo un vuoto
grigio e soffocante
ma non prova a riempirlo
no.
La mente è stanca

e si stanca della sua stanchezza
pian piano rallenta pure lei
per inabissarsi in una penombra salata
mangiata, già consumata.
Resto veramente sola,
neanche più i pensieri
mi accompagnano
e mi tengono sveglia
non c'è più bocca per assaggiare
occhi per parlare
cuore per calcolare
gli ultimi avanzi di una personalità
lasciata in debito e al chiodo.
L'involucro è triste

e prova nostalgia per 
un'anima svanita.

sabato 30 maggio 2015

Spicchi di tracce mnestiche

Mi è appena apparso nella mente il suo sorriso, insieme alla leggerezza che eravamo in grado di donarci a vicenda. Eravamo capaci anche di questo, oltre che fare discorsi da stupide depresse. Nonostante fosse la mia piccola luce nel buio più assoluto, era anche un enorme sole nelle giornate estive del cuore. Il suo sorriso era dolce. I suoi occhi diventavano più piccoli, ma brillavano. Mi prendeva in giro, mi sfotteva, io allora le prendevo la testa fra il braccio e l'avambraccio per strusciarle il pugno sopra la nuca e nel frattempo la minacciavo:"adesso passi da busseto".
Ricordo anche il suo scoppio di risata, improvviso, aggressivo, affamato di vita, di prenderla e farla sua, inglobarla a sé per sempre. Il suo riso era sfacciato, spesso presuntuoso; come lei, del resto. E questo mi piaceva davvero molto, questa spavalderia mi catturava ogni volta. Anche quando litigavamo, poi mi riconquistava con quell'aria orgogliosa e nobile. Rientravo nella sua orbita con indulgenza e allegria: la fragilità che mascherava così pomposamente mi stringeva il cuore. Non potevo che volerle bene. E gliene volevo, infatti, ogni mattina che la vedevo questo bene si auto-alimentava, ogni mattinata iniziava da una sua espressione, "che palle, oggi non ho un cazzo di voglia", "ho dormito 4 ore per studiare quelle cazzo di diapositive dimmerda"; la ascoltavo, era come un mantra...La giornata partiva davvero dalle sue parole del cazzo, il mondo da quel momento poteva iniziare un nuovo giro di giostra.
Quando penso a lei penso al suo piccolo naso, a quegli occhiali così grandi dietro ai quali si nascondeva e si difendeva dalla realtà per lei sempre troppo crudele. Li faceva ergere appena sopra le guance come una grande muraglia, come il Muro di Berlino, per una separazione netta e decisa:"dietro di loro ci sono IO, oltre c'è tutto il resto, lontano da me". La penso spesso, mi chiedo cosa diavolo stia facendo adesso, la penso spesso associata ad una parolaccia o ad una offesa. Impreco quando sento il suo nome e non riesco a trattenere una smorfia di bambina schifata.
La nostra dialettica adesso è questa, una "guerriglia" fredda, sabotaggi di riflessioni, sgambetti al suo ricordo...fatta nei tunnel sotterranei del pensiero, in profondità, dove è certo che nessuno possa capire o vedere. Le dichiaro guerra ogni pochi giorni, nella mia testa, è diventata un feticcio psichico al quale spesso comunque mi appello, anche se per associarci cose un po' poco gradevoli.
Ma stamani mi si è piantato addosso il suo sorriso, quello leggero, d'una volta, proveniente da una diversa vita, lontana. Un sorriso d'estate, verde, fresco, precario. Una piccola brezza sulla superficie vellutata del mare afoso. Le sue magliette a fiori, i suoi consigli su libri da leggere, film da vedere, sogni da realizzare. Crescere con lei è stato bello, è stato un "gioco serio" dove la posta era alta ma quasi mai considerata. Si cresceva per il piacere di crescere insieme e a fanculo tutto il resto. Potendo guardare le cose a posteriori mi rendo conto di quanto sia stato importante conoscerla, viverla, affiancarla ed allontanarla. La lontananza forzata non può scalfire quello che abbiamo racchiuso entro i nostri corpi durante quella nostra stagione di vita. Le stagioni sono fatte così, appartengono alla realtà della finitezza, sono delimitate e confinate, devono lasciare il passo alla stagione seguente che nasce ed incalza; ma sono anche cicliche. 

Magari ci rincontreremo sotto una stella benevola ad un prossimo giro di giostra.

domenica 15 marzo 2015

Lettera aperta per E. - fenomenologia di un'Amicizia

Sono contenta, mia cara amica E., di passare questi attimi fugaci con te. Attimi ritagliati con allegria e poche pretese, ricavati da un messaggio fulmineo all'ultimo momento
"Non so che faccio stasera, mi sa serata tranquilla, magari un film a casa"
"Magari vengo da te, sono sola. Così ci facciamo compagnia!"
"Vai!"
"Guardo i treni e parto!"
Alla stazione di volata, e tac! Eccoci per una strada insieme a scazzare e a ridere, mangiando qualcosa e trovandoci poi in una piazza piena di gente a bere e a raccontarci piccoli e grandi dettagli delle nostre vite.

Questa nostra amicizia è ruvida, come la realtà, condivide la sua stessa concretezza: si basa sulle piccole cose di tutti i giorni "lo sai, oggi ho fatto questo, ho incontrato Tizio e mi ha detto così!"; è spontanea, diretta, schietta. Mi verrebbe da dirti che questa amicizia è irrorata dalla vena grezza e primitiva della vita: ruggisce di un'esistenza elementare, non implicata e vincolata da chissà quali superficiali fronzoli.
Questa nostra amicizia è genuina ed ingenua, cara E.. E' cresciuta lentamente, annusandosi e conoscendosi senza fretta; si è sedimentata con piccoli passi, con calma si è portata a coscienza di se stessa: voglio dire, io non ti saprei dire quando siamo diventate amiche, tu ed io. Non dal primo giorno che ci siamo conosciute. Posso solo capire -adesso- che tanti piccoli gesti tra noi si sono come uniti, mano a mano che il tempo passava, e forse inconsapevolmente hanno generato assieme un mosaico fatto di tante piccole sfaccettature, mettendo alla luce il nostro legame. L'abbiamo presa alla larga, penso, mentre sorrido. Ripercorro l'evoluzione della mia opinione su di te,di come piano piano la tua orbita sia venuta ad avvicinarsi alla mia, mentre io ero presa dal mio privato sistema solare. E tu dal tuo. Eravamo due Soli, che erano a conoscenza dell'esistenza dell'altra stella vicino a sè, ma niente di più; finchè le nostre diverse orbite ellittiche sono entrate in contatto e si sono venute ad incrociare. All'inizio sporadicamente, ci incontravamo in alcuni punti di intersezione, quasi per caso: una battuta, una serata insieme, qualche interesse comune. Ma progressivamente questi punti d'intersezione sono diventati sempre più frequenti ed hanno allargato le proprie maglie, inglobando sempre di più le nostre rispettive vite separate. Ho iniziato a riconoscere in te qualcosa di me, ma al tempo stesso scoprivo in te volti che io non possedevo, che mi piacevano un sacco (magari, forse proprio perchè erano cose che non mi appartenevano e che quindi ancora dovevo conoscere?). Insomma, da lì tutto in discesa, ci siamo rinvigorite sempre più. Sei diventata la mia buona compagna agli aperitivi, alle cene e alle conseguenti sbronze, alle feste e ai concerti. Per libri e per mostre. Compagna di americani e di Zibibbo, testimone di felicità, malesseri, idee, opinioni, credenze, sentimenti, cazzate, parolacce, brutti odori e brutte figure.
Ci abbiamo messo un po', ad incontrarci sul serio. Ma ti dico che anche questa cosa ha la sua bellezza, non abbiamo cercato di costruire a tutti i costi un rapporto, piuttosto gli abbiamo dato la possibilità di nascere, il tempo di farsi e di farsi riconoscere. Ha messo le radici spontaneamente, senza che nessuno lo istigasse a fare niente. Non credi che questo sia bello così?
Magari è proprio da questo percorso che deriva la "realisticità" del nostro legame. Non ho bisogno di dimostrarmi più di quel che sono con te, non c'è necessità di maschera, nel nostro piccolo teatro di varietà, posso muovermi come meglio credo e con naturalità; a limite mi pigli per il culo e bona! Una risata insieme e via, quando ci prendiamo troppo sul serio; e si continua ad andare avanti.
Ovunque siamo, comunque vicine.

Sei forte, E. .

lunedì 26 gennaio 2015

Vaghezza e Relatività

Io vorrei chiudere in una teca il languore che mi porto stretto nel cuore. Avvinghiato fra le fibre di questo muscolo, fa più male per il fatto di non poterlo esprimere, di non poterlo sciogliere da me e guardarlo da un punto esterno, che per il suo essere in sè. E' inglobato in me e così c'è sempre una parte che mi sfugge. Invece sarebbe bello chiuderlo appunto in una teca, lasciarlo splendere lì dentro, farlo stare lì come prova, come conferma. Io provo questo, vedete?
Non vorrei sempre portarmelo appresso, a volte vorrei esserne libera: scorrazzare per piccoli sentieri da sola,senza la presenza di questo sentimento sempre avvinto a me. Mi piacerebbe assaporare molte cose senza la sua ombra. Ma nutro il sospetto che sia una parte di me inscindibile. Forse, senza di lui, non sarei io così.
Sarei altro,
Le mani un poco mi tremano.
Ho tanti pensieri in testa, Che si confondo e si fondono tra di loro, originando bizzarre chimere mai viste prime. Vorrei che in situazioni come queste ci fosse un'azione ben precisa che disinnescasse tutto questo lavorio di testa, Non so, per esempio chiudere gli occhi, fare due respiri e...ecco fatto, tutto si dissolve. La mente non deve più crogiolarsi in vicoli ciechi. Sarebbe bello, avere il controllo di sè, Potersi davvero fermare, chiudere la strada ai pensieri, disconnettersi da soli. Riavviarsi.
Mio Dio, sto davvero invidiando i computer?
Ma cosa posso fare...mi ritrovo su percorsi che ho già affrontato, sia mentalmente che realmente. Ma in realtà non c'è davvero un bel niente che è simile a qualcosa. Ogni esperienza diventa unica, sebbene coincida il suo destino con altre già passate. Ma sto cercando di stupirmi e mettermi a freno, cerco di fare uno sforzo. Vorrei poter di nuovo ripiombare in un un grembo pacato e stabile: mi accorgo che è una stupidaggine, non sarebbe per davvero così. Dovrei tapparmi gli occhi per vederlo e percepirlo in questa maniera. E che paradosso è vedere una cosa con gli occhi chiusi, sfrattati dal trono che gli spetta?
Mi bruciano gli occhi. mi bruciano le labbra. Non ho lasciato tregua nè agli uni nè alle altre.
Faccio un respiro profondo. A farmi compagnia solo la lancetta dei secondi, che inarrestabile schiocca perpetuamente, Mi fa quasi stare meglio, la sua continuità mi distende. Niente strappi, niente aspettative deluse: continua il suo inutile tragitto quella lancetta, che ha la grande responsabilità di scandire la mia vita e quella di chiunque ci entri in contatto. Ma lancetta non ha cervello e impulsi nervosi, non sente il peso di questa responsabilità. 
Forse è una di quelle cose che mi può vedere come un teca, dove resta avvinghiato un languore che splende.
Grazie, relatività: mi fai passare da invidiare un computer ad invidiare un'esile lancetta di un comunissimo orologio da muro.

mercoledì 7 gennaio 2015

E' a te che parlo

Davvero stavolta sarà la volta buona?
Davvero riuscirò a lasciarti scivolare via con dolcezza dalle mani senza ripensamenti? Come i piccoli granelli di sabbia di una spiaggia ormai esistente solo nella memoria?

Sarà difficile concludere con dignità dopo tutto quello che è stato, con libertà pacata.
Risulterà complicato non far vincere i piccoli capricci, fiori di dolci piante d'abitudine preziosa.
Quasi impossibile sarà resistere senza le consolazioni che ci donavamo, le pelli che si scambiavano.
Ridere per nulla, ridere nel cuore della notte per le frasi che non articolavo bene. E per le tue stupide battute.
Riusciremo veramente ad esserci comunque, l'uno per l'altro senza farci del male? 
Riusciremo a parlarci e a non vedere l'amore esplodere sotto le pupille? O meglio, riuscirà l'amore ad arginarsi e a non scoppiare nei nostri occhi?
Riusciremo mai ad essere amici, compagni fedeli di segreti, magari di segreti d'amore... Riusciremo a non desiderarci, a viverci sotto pelle diversa rispetto a quelle con cui abbiamo imparato a conoscerci fino nella più oscena ed estremamente dolce intimità?
Il nostro abbraccio sarà capace di mutar forma e adattarsi agli abiti più stretti di un'amicizia? 
Ho sempre detestato il fatto della regressione del rapporto, ogni volta che ci lasciamo con qualcuno a cui abbiamo voluto un forte bene: si riazzera tutto, ci hai parlato di cose che ti vergogni ad ammettere a te stessa, gli hai confidato brutte azioni, ci hai condiviso le più forti felicità, lo hai immerso nel tuo mondo e nei tuoi sogni e poi...puff, ci si lascia e resta solo lo spazio per un'ingombrante ed imbarazzante indifferenza. Sai come sono i suoi occhi al mattino, ancora stropicciati dai sogni, ma non ci parli più. I suoi ritmi quotidiani, hai imparato i suoi modi di dire ed i suoi toni: hai scoperto i suoi umori, come li manifesta e come li cela. Quella persona si è aperta in un universo davanti a te fino a pochi istanti fa, adesso è un muro ermetico su cui hai l'obbligo del veto dell'indifferenza. Devi astenerti.

Ma l'immaginazione non ha confini, e io voglio immaginare che io e te saremo la contraddizione, il paradosso di questa legge di natura dei rapporti umani; di noi spero si dirà che ci siamo tanto fatti bene, e poi tanto, tanto male, ma.... Ma ancora conserviamo gelosamente l'uno i tratti caratteristici dell'altro dentro la nostra profondità e che ancora ne parliamo, di questi abissi che ci portiamo dietro con fatica. Non sarà tabù ricordarmi e ricordarti con finissima malinconia i giorni passati l'uno a fianco dell'altro, non sarà tabù raccontarmi e raccontarti come sono i miei giorni ora che sono senza di te, che sapore ha questa vita senza di te. Di noi vorrei tanto che si dicesse "si sono fatti molto bene e poi molto male. Ma ancora si parlano come esseri umani che si son conosciuti da molto vicino". 
Ecco, questo mi renderebbe felice. Questa è la mia nuova utopia. 
Non sono sicura di riuscire a sostenerla io per prima, è difficile adattare la realtà ad un ideale senza distruggerla trasformandola in altro, 

ma vorrei tanto poter provare a tenere comunque a me vicino il tuo bel sorriso.