sabato 9 luglio 2016

Dis-astro (o ebrezza del marcio)

Resta solo, in fondo alla giornata, nella sua gola a provetta da laboratorio, un senso di vuoto da raschiare, di perdita, di parto mancato. Un parto che si sarebbe potuto manifestare solo nel Bello: ma nel brutto il nuovo venuto si è ritratto, si è gonfiato, ha bloccato la sua crescita con sofferenza ed è diventato un aborto di feto ridotto a forme deformate e atroci.

Resta quel senso di abbandono, un sospiro mozzato a metà, un singhiozzo che risuona nella colonna vertebrale e causa lancinanti dolori alle ossa. Resta sulle labbra un cristallo di sale che le screpola e non puoi farci niente. Come quando il ghiaccio causa un'ustione sulla pelle: non te ne capaciti, ma è proprio quello che è avvenuto. Una discrepanza tra ciò che ci si aspettava e quello che è successo, come un'anca sbilenca che manca il giusto movimento e viene fuori uno sghembo da storpio.

La notte sopravviene e tu ancora senti che la tua giornata non è arrivata a compimento... Ma, ormai, che poterci fare? Il buio avvolge già tutto e tu non hai voglia di rischiarare quello che vuole restare coperto. Allora ci si ritrova a giocare, a trastullarsi col buio, sporcarcisi tenendolo in mano, non accorgendosi per tempo che quel buio entra dentro il corpo e inizia ad inquinare anche te: il lago dei pensieri che fino a quel momento avevi tenuto a bada e avevi posto sotto controllo. Ora transitano come vogliono i pensieri, e si convogliono dritti allo stomaco, creando un grumo ed una congestione del traffico. Senti una palla pesante fra le viscere che ti obbliga a restare ben piantato per terra, relegato al tuo ruolo che vorresti, ma che oggi non sei riuscita ad inquadrare. Allora ti blocchi sull'assenza. Allora avverti che un pezzo è mancante e ne indovini anche la forma e la grandezza, come la tavola periodica di Mendelev, grande genio, che aveva lasciato spazi vuoti apposta perché aveva intuito che altri elementi erano ancora da scoprire. Però tu non sei una inanimata carta su cui disegnano una tabella con tasselli assenti. Tu le percepisci le mancanze e se ti ci focalizzi provi pure un grande dolore. Fino a sentirti sbagliata, con un moncherino, con non tutti i requisiti che permettano di restare a galla.

Resta allora una sensazione strana, come un odore acre che importuna le narici, ma le tenta nello stesso momento, a respirarlo ancora. Odore di benzina o di carne bruciata. Odore di una disfatta che avvolge nelle sue spire sempre più strette, come una promessa di consolazione, se decidessi di lasciartici andare del tutto. Una madre che ti uccide abbracciandoti. Cosa c'è di più invitante? Accettare il proprio cono d'ombra e rientrarci in maniera mite come l'agnellino dentro al mattatoio.


La bellezza del mattatoio
gli attimi irripetibili
che cancellano il tempo
non esiste il tempo
esisti tu e
io
e loro
e l'esplosione
con l'orgoglio che guida,
al timone c'è lui
e ride
di risata pazza schiumosa
smostrata
una risata senza faccia
terribile
insulsa
gratuita
violenta
lasciate che tutto abbia il suo corso, la mia lacerazione deve essere riparata
una questione di rispetto
e di fedeltà alla casata
consumiamo questa faida
che la gara abbia inizio
chi pesta ammazza violenta bastona picchia incrina squarcia scortica con più foga vince
lasciamo trionfare questo delirio dionisiaco, l'ebrezza del marcio
intarsiamoci di potenza pura e ripudiamo disgustati la morale
le volontà non possono essere ingabbiate e fasciate, no, bisogna che si sprigionino con una intensità che spazza via qualsiasi cosa
distruggetevi
distruggetemi
distruggiamoci
mandiamo tutto a fanculo. Il tempo è ora, solo ora. Immoliamo come un capretto patetico la concezione del panta rei, sgozziamolo, che il sangue schizzi sulle nostre labbra e lecchiamocele con la lingua avida
sacrifichiamo un'eternità vergognosa per il trionfo ed il tripudio di un attimo. In un attimo scateniamoci e mordiamoci e facciamo di noi carne da macello, strappiamoci a suon di botte la vita da questi corpi che sono puro niente, sempre più forte, sì, sempre più ferocemente, sì, sempre più senza limiti decenti. Sì, sì, sì.
trucidiamoci con occhi che non vedono più ma sentono, annusano, distorcono, sfregiano e diventano sempre più bestiali, sempre più triviali. ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ah ahaaaaaa.

.

Rabbia. Bibbia del comune pensare, accelerazione giustificata, folle, malata. Sangue che tinge la pelle, capillari si divaricano, no, lasciatemi in pace, non la voglio la medicina per stare meglio, io voglio stare male
male
male
male.

Ho indurito il cuore per farlo schiantare con meno dolore contro le pareti delle gole profonde e rocciose delle relazioni umane. Schiantarsi contro queste pareti e al massimo scheggiarsi; ma non rompersi, non spaccarsi. Mantenere a tutti i costi la stessa unità primordiale. Restare lo Stesso come lo stesso scoglio resta uguale a se stesso anche dopo che è stato sommerso da un'onda. Inafferrabile, inscalfibile, immutabile. Quanta vana gloria dietro a questo movimento di morte. Dietro a questa inattività testarda ed ottusa. Consumare energie per restare immobili e pesanti-
- inossidabili.

martedì 19 gennaio 2016

Le lezioni del Saggio

Ieri ho scovato il Saggio a tu per tu con il suo Destino: eretti entrambi, si fissavano con una calma accesa e surreale, gli occhi dell'uno si conficcavano pacatamente negli occhi dell'altro. Erano speculari e disinvolti sul Ponte che già aveva fatto il suo saluto al sole e si dava senza remore all'assalto della notte. 
Il Saggio ed il suo Destino non si muovevano, solo le labbra impercettibilmente mostravano una cadenza densa ma segnata da un ritmo naturale. Gli occhi erano saette e la parole che si comunicavano dovevano essere proprio belle, perché inchiodavano sui loro visi cremosi sorrisi. Non si muovevano i loro corpi, è vero, eppure stavano danzando insieme, il Destino sinuosamente con curve di donna, ed il mio Saggio che le scorreva attorno, inebriato di questo movimento taciuto e sotteso, ma comunque restava pacato e padrone di sé. Era come le ostinate e piccole onde in riva di un enorme lago, che però non turbano la quiete d'insieme del bacino.
Mi avvicino al Ponte, mi avvicino a queste due figure, a malincuore, perchè so che la mia presenza turberà questo spettacolo sublime, infrangerò il loro quieto tentarsi. E forse sanno già prima di vedermi che sto arrivando, sanno che il loro attimo non può durare in eterno; il Saggio si gira per primo verso di me, con un sorriso da pace cosmica. Beato e, solo quanto basta, bagnato da una leggera malinconia. Il Destino allora lo segue e porta a compimento lo stesso movimento lento del Saggio, ma, a differenza sua, ha negli occhi un piccolo sisma di ansia, nonostante anche il suo sorriso a me rivolto sia genuino. Infatti abbassa lo sguardo, poi lo rialza sull'alto Saggio, gli sorride come solo tra loro due sanno fare, mi accenna un saluto con la mano e si allontana da noi. Il Saggio non può fare a meno di godersi questo atto finale, volge lo sguardo al Suo Destino che se ne va, non vuole perdere neanche un briciolo di quella camminata lenta, seducente, nostalgica. Insegue le curve di quella bella silhouette che conosce bene e solo per un attimo, un fulmine che subito si ritrae, vedo balenare sulle sue spalle il peso opprimente che deve sostenere per far vivere la bellezza di queste logiche e di questi attimi.
Ma adesso il Saggio è solo per me, mi cinge le spalle e iniziamo a percorrere la strada adiacente al Fiume, cammino assecondando la sua cadenza trasognata, aprendoci un  percorso nel buio che dilaga.
E dal Saggio sgorgano parole concentrate, messe dolcemente in fila, raccomandate affinché non disperdano nessuna delle cose che hanno su di sé e che devono traghettare fino a me. Il Saggio con la sua voce mi fa venire un amabile tormento allo stomaco, lo ascolto senza poter fare a meno di investire della necessità più urgente ogni pensiero che mi voglia comunicare. il Saggio finisce i suoi discorsi, mi mostra la sua pacatezza e la sua serietà. Mi parla di decisioni "prese di stomaco" ma guidate dalla ragione, trasuda dalla sua bocca una determinazione ed una profondità di riflessione che io credevo esistere solo nelle utopie e illusioni dell'uomo. Scavalca con lo sguardo la spalletta di mattoni e, seguendo le acque torbide del Fiume, mi narra del vuoto che adesso ha davanti e tutto intorno a sé. Adesso che con cortesia e tenerezza ha mandato via, lontano da sé Destino, con lo stesso Amore col quale fino a quel momento l'aveva amato più d'ogni altra cosa. Ride, addirittura, mentre mi dice "voglio essere in grado di gestire il Vuoto, può essere divertente, anche", ride quando mi dice "Magari ho fatto una cazzata, ma ho seguito quello che sentivo".

Diventa più serio quando ascolta le mie poche parole, mi sento un gruzzolo di sabbia scomposta, davanti alla maestosa dignità di Montagna quale è lui; o forse neanche mi ascolta, non mi risponde, lascia che le mie parole cadano nel vuoto che ci circonda. Forse si sta destreggiando in esso e cerca di disseminarci i miei suoni, così da farlo ritornare di nuovo un Vuoto completamente brullo.
Il mio Saggio se ha paura non lo mostra. Se qualcosa lo intimorisce, lo tiene a bada. A me riserva solo la sua enorme serenità ed i suoi enormi abbracci. Mi saluta con un leggero bacio calibrato sulla guancia, mi fa uno dei suoi sorrisi un po' ermetici
e
lascia che il fluire delle sue parole, formalmente pacate
mi invadano la testa
assediandola con la frenesia delle api in un alveare
mentre torno a casa accompagnata dal silenzio,

da quella quiete che precede la tempesta.
Lo sa che la sua calma, che esercita con tanta fatica,
in me diventerà terremoto caotico.
Ed infatti, ormai girato, in direzione opposta alla mia, dietro la sua barba scura

tra un passo trasognato e l'altro, sorride di questo piccolo sentore.